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L’Università degli Studi di Napoli “L’Orientale” è la più antica Scuola di sinologia e orientalistica del continente europeo, con una consolidata tradizione di studi nelle lingue, culture e società dell’Europa, dell’Asia, dell’Africa e delle Americhe. L’Orientale rappresenta un importante riferimento di studi e ricerche sulle dinamiche politiche, sociali, istituzionali e culturali della contemporaneità cinese, con ben 30 convenzioni attive con prestigiose università cinesi. Infine è sede dell’Istituto Confucio di Napoli che promuove la conoscenza della lingua e della cultura cinese.
L’intervista è di Marisa Siddivò – Professoressa di Riforme economiche nella Cina contemporanea e Strategie di sviluppo della Cina- L’Orientale di Napoli
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L’economia cinese ha avuto una battuta d’arresto in questo primo trimestre 2020 a causa dell’emergenza covid-19. Come vede la ripresa economica in Cina nei prossimi mesi?
Direi qualcosa in più di una battuta di arresto. Tutti gli indicatori (tasso di crescita del PIL, fatturato industriale, consumi, export ecc.) riflettono una contrazione rilevante. Le stime del Fondo Monetario Internazionale prevedono per il 2020 una crescita del PIL dell’1,2%, quelle della Banca Mondiale del 2,3%. Gli economisti cinesi sono più ottimisti e prevedono un tasso di crescita del 4-5% ma, avvertono, dipende da come si evolve la situazione nei principali mercati di sbocco della Cina: Europa e Stati Uniti. Data la forte interdipendenza consolidatasi tra le principali economie mondiali, credo prematuro avanzare ipotesi sulla ripresa sebbene, secondo un copione già visto, lo scarto tra la variazione annua del PIL cinese e quella degli altri paesi galvanizzerà la comunità imprenditoriale del paese e farà da traino alla ripresa.
Quale posto può avere l’imprese italiana in questa ripresa, anche in virtù della sua recente pubblicazione “Fuori dagli stereotipi. Un metodo per potenziare il ruolo dell’impresa italiana in Cina?
La pubblicazione a cui fa riferimento è stata elaborata prima dello scoppio del coronavirus e intendeva sollecitare l’impresa italiana ad analizzare l’investment environment cinese con accuratezza, tenendo conto, ad esempio, del ruolo determinante che lo Stato e quindi le politiche economiche da esso elaborate, esercitano sulle scelte delle imprese, pubbliche o private che siano. Da questo punto di vista, la situazione non si è modificata, anzi in Cina come altrove, la gestione della pandemia ha potenziato il ruolo regolatore dello Stato. Ora però bisognerà fare i conti con una scala di priorità diversa. Alcuni obiettivi collegati alla Belt & Road Initiative e al piano di riqualificazione industriale “Made in China 2025” potrebbero essere ridimensionati a favore di altri finora negletti come la modernizzazione del settore agricolo, la gestione dello spazio urbano, la qualità delle infrastrutture ecc.
Quali suggerimenti potrebbe dare alle imprese innovative interessate ad entrare nel mercato cinese in questo periodo così particolare?
Mi limito a fare alcune annotazioni. La prima è che in questo momento di rimbalzo delle responsabilità in merito alla diffusione del virus, i centri di ricerca congiunti sui vaccini e le cure continuano ad operare. Ciò significa che nonostante l’irrigidimento del clima politico generale, gli spazi di cooperazione nel settore della S&T e della ricerca applicata non sono andati persi. L’irrigidimento a cui mi riferisco è quello dell’UE che dall’autunno del 2018 ha modificato il suo approccio alla Cina. I discorsi più recenti dei leader europei rimandano a due direttrici: da un lato, una velata (non esplicita come quella statunitense) rimessa in discussione della partnership con un paese che oggi viene considerato un “rivale sistemico”, contro i cui investimenti si ripropone la golden power, verso il quale si esprimono preoccupazioni per la sicurezza nazionale e dai cui programmi congiunti si esce senza troppi convenevoli (vedi decisione repentina del governo italiano di ridimensionare il proprio apporto al programma congiunto per una nuova stazione spaziale cinese). Un irrigidimento che potrebbe avere un impatto più deleterio degli attacchi di Trump o del governatore del Missouri. Dall’altro lato, nei discorsi dei leader europei leggiamo uno scatto di orgoglio sulla possibilità che il nostro continente si imponga come centro di innovazione, di sostenibilità, di responsabilità sociale di impresa ecc. Credo che le imprese che operano nei settori innovativi debbano considerare il mutato contesto. La scalata solitaria al mercato cinese o ai centri di innovazione da parte della singola impresa (e direi perfino da parte di un singolo paese) trova sempre meno spazio concettuale, normativo e finanziario. La seconda annotazione – scontata direi- è che la Cina resta un hub di innovazione dove le start-up di tutto il mondo possono trovare quel sostegno normativo e finanziario che altrove scarseggia. Ma bisognerebbe sottolineare il contributo che tali startup possono offrire all’innovazione di processo che è il reale obiettivo del Piano Made in China 2025, non all’innovazione di prodotto sulla quale abbiamo meno chances.
Il 2020 celebra anche il 50° anniversario dei rapporti diplomatici tra i due Paesi, quali sono secondo Lei gli elementi che possono aiutare la ripartenza dei rapporti economici tra i due paesi?
Entrambi hanno bisogno dell’altro. Bisogna partire da qui, dall’interdipendenza. Talvolta esaltata, altre volte vissuta come un fattore che condiziona negativamente le strategie di impresa o l’approvvigionamento del mercato o le relazioni internazionali, l’interdipendenza deve rappresentare un punto di forza delle nostre strategie (strategie, non politiche di breve periodo).
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