L’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (CNR-ISPC), nato dalla fusione di IBAM (Istituto per i Beni Archeologici e Monumentali), ICVBC (Istituto per la Conservazione e la Valorizzazione dei Beni Culturali), ISMA (Istituto di Studi sul Mediterraneo Antico) e ITABC (Istituto per le Tecnologie Applicate ai Beni Culturali), ha come obiettivo principale il potenziamento e l’innovazione delle linee di ricerca esistenti, predilige le dimensioni multi e interdisciplinari degli approcci scientifici nell’ambito del complesso e diversificato settore dei Beni Culturali. È dedito all’Heritage Science, ovvero allo studio dei metodi per conoscere, conservare, valorizzare e divulgare il Patrimonio Culturale.
L’intervista a Laura Genovese, Ricercatrice nel campo dell’archeologia urbana e della valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale presso l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale (ISPC) del CNR
In quanto ricercatrice, Lei ha fatto diverse esperienze in Cina in materia di conservazione e valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale: quali ritiene essere le principali differenze circa i metodi di approccio alla conservazione dei beni archeologici tra l’Italia e la Cina? Come possiamo imparare l’uno dall’altro?
Collaboro con i colleghi cinesi dal 2012 in materia di conservazione e valorizzazione sostenibile del patrimonio culturale. La principale differenza che si riscontra tra questi due mondi, quello occidentale e cinese, è soprattutto culturale, in particolare circa cosa si intenda per ‘autenticità’. La cultura tradizionale Cinese attribuisce un senso di autenticità maggiore all’immagine storica di un oggetto, cioè a come esso si presentava nel passato, più che alla sua realtà materiale, che ne attesta l’età oggettiva, per noi occidentali vale piuttosto il contrario. Tutto questo ha effetti diretti sia sulle pratiche di conservazione che sulla valorizzazione del patrimonio. Basti pensare alla prassi cinese delle ricostruzioni, più o meno filologiche, delle antiche mura urbane in città come Pechino o Xi’an (provincia dello Shaanxi), o a quelle di palazzi storici o di rovine archeologiche con strutture in cemento armato. Si tratta di soluzioni che devono essere contestualizzate e che contribuiscono sensibilmente a marcare la differenza fra i due Paesi. Lo stesso vale per gli approcci di valorizzazione.
Quali sono oggi i nuovi traguardi della ricerca archeologica nel Suo campo con le nuove tecnologie come l’intelligenza artificiale?
Condivido con molti colleghi archeologi l’idea che il traguardo futuro sia quello di non scavare. Mettere cioè in campo tutte le tecnologie possibili che consentano di fare indagini non invasive (es. Il remoto sensing) così da tutelare quanto ancora è nel sottosuolo. Accanto a questo c’è poi la necessità di sviluppare la capacità progettuale, cioè di delineare un progetto complessivo, che vada dalla pianificazione delle indagini sul campo, allo scavo, all’intercettazione di una serie di fondi che consentano, nel lungo periodo, di perseguire conservazione, monitoraggio e manutenzione ordinaria e straordinaria e, non ultimo, l’eventuale valorizzazione. Accanto a tutto ciò, sta poi la considerazione che viviamo in territori sempre più fragili, interessati da calamità naturali legate anche ai cambiamenti climatici, a sismi, per non parlare del rischio antropico legato all’inquinamento, alle pandemie e alle guerre. Dunque, considero un altro traguardo fondamentale quello della messa in sicurezza del territorio e, con esso, del patrimonio culturale; stiamo collaborando con la Cina anche su questi aspetti.
Ha collaborato con diverse università cinesi come: Peking University; Wuhan University; Xi’an University of Architecture and Technology; quali i progetti principali nati da questa cooperazione?
La collaborazione con le università cinesi è stata fruttuosa, interessante ed è un’esperienza che consiglio di fare a molti colleghi. Negli ultimi anni, la Cina ha investito molto sulla formazione, anche prevedendo programmi di scambio con università straniere. Attualmente, molti atenei italiani propongono interessanti programmi di scambio con questo Paese e numerosi studenti cinesi si sono formati anche presso i nostri laboratori CNR. Del resto, in questo contesto globale, è determinante che l’Europa si aggiorni anche sugli indirizzi della ricerca cinesi che hanno un impatto su tutti i settori, l’economia, la politica, la società solo per citarne alcuni. Al riguardo partecipo ad un’interessante Cost Action per valutare proprio questi effetti. Infine, tra i risultati più interessanti raggiunti nel corso della mia esperienza in Cina, posso citare la collaborazione con altri enti prestigiosi come il World Heritage Institute of Training & Research for Asia and the Pacific Regions (Whitrap) di Shanghai, la Chinese Academy of Cultural Heritage (CACH) di Pechino o l’ICOMOS China. Sulla base di queste collaborazioni abbiamo attivato dei programmi bilaterali di ricerca e formazione tutt’ora in corso, fra i quali un progetto sulla valorizzazione della Maritime Silk Road in collaborazione con la CACH, che coordino. Conoscere la Cina e le sue tradizioni è importante per avere gli strumenti adatti per proporre cooperazioni future.
Nell’ambito della valorizzazione sostenibile quanta attenzione pone la Cina a questo tema attualmente?
Noi del CNR-ISPC abbiamo lavorato tanto sugli aspetti del management che della valorizzazione del patrimonio sia monumentale che archeologico, concentrandoci particolarmente sui contesti urbani. Il concetto di valorizzazione sostenibile è risultato il più sfidante, essendo stato anche al centro di uno dei progetti che ho coordinato con la Chinese Academy of Culturale Heritage. In breve, uno degli obiettivi che ci ponevamo era quello di rendere sostenibile la valorizzazione nel senso di non creare un’eccessiva pressione antropica sui monumenti più famosi (presi più spesso d’assalto dal turismo), ma cercare di distribuire i flussi turistici anche nei siti meno noti, meno promossi, nell’ambito della creazione di itinerari culturali tematici. Questo avrebbe avuto come ulteriore ricaduta positiva anche una crescita di interesse verso questi siti spesso ignorati. Ci siamo trovati dinanzi a problematiche legate ai diversi approcci normativi di entrambi i Paesi. Mentre da noi, le linee guida dell’Europa spingono verso l’integrazione del patrimonio culturale, in Cina si hanno problemi legati al fatto che ci sia una sorta di ‘gerarchia’ dei siti culturali e, in base al posizionamento nella gerarchia, questi ricevono proporzionalmente dei fondi. Dunque, c’è un’elevata competizione da sito a sito e ognuno di questi è gestito da enti governativi locali; pertanto, diventa molto complesso smontare questo sistema per far comprendere che la creazione di un network di siti possa essere di beneficio per tutti, sia per quanto riguarda la soluzione di problemi legati alla pressione antropica per una migliore qualità della fruizione e della gestione, che per i risvolti socio-economici, per esempio coinvolgendo le comunità locali nei benefici economici in termini di sviluppo sostenibile. Questo è uno dei problemi che riguarda i nuovi traguardi del settore. Attualmente la Cina si pone in linea con l’Agenda 2030, perseguendo anche la valorizzazione sostenibile del proprio patrimonio culturale, ma in molti casi gli esiti sono ancora molto distanti dall’obiettivo proprio perché ci sono troppi interessi in gioco. È una realtà analoga a quella occidentale pur partendo da premesse diverse.